Marshall Sahlins ha iniziato la sua carriera da posizioni teoriche vicine all’ ecologia culturale e al neo marxismo, ma presto se ne distacca sostenendo che l’ economia delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori non è casualmente determinata dai fattori generalmente presi in considerazione dai suddetti orientamenti (condizioni ambientali, demografia, dotazione tecnologica,etc…). Sahlins ha proposto di chiamare “modo di produzione domestico” quel tipo di organizzazione economica, dipendente non solo da condizioni materiali, ma da scelte culturali. In Cultura e utilità, lo studioso rilancia la tesi secondo cui qualsiasi attività pratica degli esseri umani è mediata dall’ ordine simbolico della cultura. Riprendendo la questione dei tabù alimentari, su cui Harris aveva impostato la sua teoria “materialistica” della cultura ( la “scienza della cultura” deve mirare a identificare le determinanti materiali dei fenomeni culturali, le quali consistono non solo nell’ ecologia e nella demografia, ma nel loro carattere economico, ossia nel fatto che essi costituiscono soluzioni ottimali per uno sfruttamento efficiente e quindi “economicamente” razionale), Sahlins ha sostenuto che proprio questi costituiscono una delle tante prove possibili della rilevanza di scelte culturali “arbitrarie” rispetto alle condizioni materiali.
Clifford Geertz, padre dell’ antropologia interpretativa, ha affrontato la questione della “crisi della rappresentazione etnografica” collegandola alla questione fondamentale dell’ antropologia culturale statunitense: la natura della cultura come “sistema di significati” che si esprime nella maniera di agire delle persone. Geertz sostiene che la cultura è sì una “rete di significati”, ma una rete che esiste e prende forma solo nella dimensione sociale e pubblica, ossia nella misura in cui i significati si costruiscono, trasformandosi e rielaborandosi continuamente, nella vita sociale delle persone.
Geertz ha sostenuto che l’ antropologia, a differenza della sociologia, non mira alla spiegazione dei “fatti” registrati dall’ etnografo mediante l’ identificazione delle “leggi” da cui essi derivano, ma, piuttosto, alla comprensione dei significati con cui le persone interpretano tanto i loro comportamenti quanto quelli degli altri. Secondo lo studioso, la conoscenza antropologica risiede fondamentalmente nell’ etnografia, intesa come attività di “descrizione densa” dei diversi intrecci di significato che il ricercatore è capace di ricostruire nei comportamenti che sta descrivendo. In questo senso, la descrizione etnografica è dunque una “interpretazione di interpretazioni” e, non una semplice “raccolta” di fatti oggettivamente “dati”.
Secondo Geertz, la cultura è un testo che l’ etnografo deve ricostruire partendo dallo stato frammentario, incompleto ed enunciato in una lingua inizialmente ignota, con cui esso gli si presenta. L’ etnografia può dunque essere assimilata ad un’ attività di “testualizzazione”, che implica operazioni di “interpretazione” e “traduzione”.
Nello scritto Dal punto di vista dei nativi: sulla natura della comprensione antropologica, Geertz chiarisce il senso della famosa espressione di B. Malinowski per cui, nelle sue descrizioni, il ricercatore deve cogliere “il punto di vista del nativo” . Non significa certo che l’ etnografia si esaurisca nel racconto di un’ esperienza di immedesimazione nel mondo dei significati e dei concetti “indigeni”, ma l’ etnografia ha senso solo se riesce, in modo convincente per tutti, a costruire un ponte di comprensione tra il senso di quei concetti “indigeni” e quei concetti che invece, sono “lontani” dall’ esperienza di “nativi” ma “familiari” a quel pubblico.
Il fine ultimo dell’ antropologia è quello di ampliare il campo dell’ esperienza di “essere umani” condivisa dagli uni e dagli altri, mostrando che la ricchezza di questa esperienza si situa nella compresenza dei modi diversi che hanno gli uomini di conferirle significato.
Nell’ ultimo ventennio del XX secolo, molte delle questioni sollevate da Geertz sono state riprese dal cosiddetto movimento “postmoderrno” sviluppatosi nell’ antropologia statunitense. L’ etichetta “postmoderno” è stata proposta dal filosofo francese Jean-Francois Lyotard. In antropologia, l’ etichetta “postmoderno” è stata spesso accompagnata da quella di “poststrutturalismo”. Quest’ ultima si riferisce alla maniera con cui filosofi come Jacques Derrida e Michel Foucault hanno argomentato che, diversamente da quanto lo strutturalismo aveva postulato, l’ analisi dei concetti di “sapere” e di “discorso” è irriducibile all’ identificazione dei codici simbolici da cui essi sarebbero strutturati.
La raccolta di saggi “Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia”, curata da James Clifford e George E. Marcus, è una sorta di manifesto programmatico dell’ antropologia postmoderna. Il tema unificante della raccolta è quello secondo cui le scritture etnografiche non possono più essere considerate un semplice resoconto analitico dei contesti culturali in cui l’ antropologo ha compiuto la propria ricerca sul campo, ma sono testi in cui si esprimono particolari “poetiche”, ossia strategie retoriche di rappresentazione di sé e degli “altri”, che sono connesse alla costruzione di relazioni di potere, ossia a “politiche”. La “fabbricazione” delle etnografie si basa sulla soggettività del ricercatore, soggettività che non è solo legata alle condizioni contingenti della sua esperienza di ricerca sul campo, ma anche, a monte, ai diversi contesti di natura politica preesistenti alla sua esperienza, che la strutturano anche nel momento della “traduzione” in scrittura. I testi etnografici non sono dunque rappresentazioni realistiche della realtà di cui parlano, ma “allegorie”, di carattere più letterario che scientifico, delle relazioni di potere tra i loro autori e i soggetti rappresentati. Clifford sostiene che l’’autorità delle descrizioni, e dunque delle scritture etnografiche deriva dalle condizioni di potere che rendono autorevole e retoricamente persuasivo il “racconto” di una “cultura”, di una “società”, di un “gruppo”. L’ etnografia classica” ha costituito un modello di “autorità monologica”, in quanto quella dell’ etnografo era l’ unica “voce” legittimata a parlare dei modi di vita degli “altri” e a ricostruirne l’ unità e la coerenza a partire da indizi frammentari e dalla particolare contingenza della situazione da lui esperita nel corso della ricerca. Dall’ acquisita consapevolezza del potere rappresentativo della propria scrittura, l’ etnografo “critico” deve elaborare nuove modalità, meno asimmetriche e più “dialogiche” e “polifoniche”, di “restituzione” documentaria dei risultati della propria ricerca, che rendano visibili ai lettori le concrete condizioni e interazioni sociali e politiche in cui essa si è svolta, dando più spazio alle altre “voci” a partire dalle quali costruisce il suo “quadro”: non solo quelle dei “nativi” con cui ha interagito, ma anche quelle provenienti da altre modalità di rappresentazione: letterarie, artistiche, giornalistiche.
James Clifford ha insistito sul fatto che “nel bene e nel male”, le etnografie del Novecento, in modo analogo alla “cultura” stessa, non sono dei “frutti puri”, ma dei prodotti che sono storicamente derivati dall’ intreccio dell’ antropologia con ideologie politiche, poetiche letterarie, movimenti di avanguardia. Oggi il pubblico delle etnografie è costituito anche da persone che provengono dalle “culture” o “società” descritte, e ciò non può non riflettersi sul modo in cui le rappresentazioni etnografiche sono considerate o meno “accettabili”, “condivisibili”. La stessa intensificazione e pervasività dei fenomeni migratori ha radicalmente cambiato i rapporti tra “culture” e “luoghi”, rendendo improponibile l’ idea di una loro coincidenza assoluta e invariabile.
George Marcus e Michael Fisher ritengono che nel XX secolo il contributo veramente originale dell’ antropologia alla conoscenza del mondo contemporaneo è consistito in un “progetto” di “critica culturale” delle rappresentazioni di sé e degli altri, e tale deve restare nel mondo contemporaneo globalizzato.