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Analisi “Ginestra” di Giacomo Leopardi – appunti analisi

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La palinodia al marchese Gino Capponi analisi leopardi

La ginestra o Il fiore del deserto è la penultima lirica di Giacomo Leopardi, scritta nella primavera del 1836 a Torre del Greco nella villa Ferrigni e pubblicata postuma nell’edizione dei Canti nel 1845. Il vasto poemetto conclude (insieme a Il tramonto della luna) il suo complesso e prolifico percorso poetico, tanto da essere considerato il testamento spirituale di Leopardi. Esso fa parte di quella che è stata definita dalla critica più recente la poetica anti-idillica dell’ultimo periodo leopardiano. Vedi wikipedia >>>

XXXIV – LA GINESTRA, O FIORE DEL DESERTO

E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce.
GIOVANNI, III, 19.

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel, profondo
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

La ginestra di Giacomo Leopardi analisi

La ginestra

Appunti sull’analisi della Ginestra di Giacomo Leopardi:

La Ginestra è senz’altro uno dei capolavori della lirica leopardiana e del nostro 800 italiano.

A un certo punto si tende a sopravvalutare certi scrittori o componimenti: è un quadro vario, quindi bisogna fare attenzione quando si studia la letteratura. In uno scrittore come Leopardi si possono trovare molte cose: perchè ha scritto molto e ha variato, allora permette a un critico di partire da una posizione, di privilegiare una parte e quindi si da poi una visione parziale dell’opera.

La Ginestra è un testo complesso e la riflessione di Walter Binni è stata importante per rivalutare tutto l’ultimo Leopardi. Negli ultimi decenni si studiava Leopardi sono sui Piccoli e Grandi Idilli, una fase della fine del secondo trentennio, con alcuni punti fermi. Arrivando al “Pensiero dominante” non attirava più l’attenzione. E’ difficile negare che i Grandi Idilli sono il massimo dell’espressione leopardiana, ma ormai le rivalutazioni estetiche si rifacevano al periodo del 900 dominato dall’estetica crociana. Questo svolta nella seconda parte del 900 ha permesso di dare una valutazione diversa dello scrittore, e anche dal punto di vista dei contenuti, bisogna ribadire che la visione del mondo di Leopardi è atea e di pessimismo radicale. Sorge il problema di valutare tutto questo attraverso i testi. La differenza tra Dante e Leopardi è che il primo vuole che il lettore lo senta, il secondo non vuole un lettore discepolo, sarebbe contraddittorio rispetto a quello che scrive, vuole indagare e proporre delle visioni alternative del tempo, per lui la letteratura deve essere un’operazione che vuole essere non convenzionale, vuole porre in crisi il lettore più che indottrinarlo. E’ una letteratura che può sembrare negativa ma non lo è, solamente non ha più delle certezze da trasmettere al lettore. Lo strumento letterario in nei nostri tempi non si pone più il problema di far si che il poeta diventi il sostenitore di valori e ideali condivisi. Questo è un fenomeno vasto. E’ sempre più difficile individuare e fotografare un quadro. In Europa dalla metà del 900 il quadro è più complesso perchè non esiste più nello scrittore l’ossessione della coerenza. In questa situazione il caso Leopardi, che è particolare e collocato in un periodo storico sorprendente, pone una problematica che sarà più compresa nel secondo 800.
Leopardi scrive la Ginestra a poca distanza dalla morte. In questo periodo Leopardi ha come la sensazione di essere arrivato alla fine. Questa situazione drammatica dal punto di vista delle forze fisiche, fu colta anche da Ranieri e da sua sorella che portarono il Leopardi in una villa alle pendici del Vesuvio: questo paesaggio alternativo, il fatto di essere bello ma vicino a una città malata (Napoli che era l’unica metropoli e città difficile, per secoli fu la più popolosa), e il contrasto tra questa natura con la presenza incombente del Vesuvio e poi gli scavi. Il testo è costruito in modo complesso e articolato, è molto lungo, che supera 300 versi, sempre in canzone libera. Abbiamo delle strofe lunghe all’interno della quali si argomentano dei concetti, quando si passa ad un’altra stanza abbiamo un salto.
Nella parte iniziale c’è un discorso descrittivo: si da il quadro. L’inizio è l’introduzione che serve allo scrittore per dare al lettore il quadro naturale, come all’inizio dei Promessi Sposi. Qui i punti importanti sono: natura, uomo, storia. Abbiamo uno stile non particolarmente difficile. Rispetto ai testi precedenti si nota un elogio dello scrittore non troppo giocato sull’inversione, i periodi sono lunghi ma più facili e anche per quanto riguarda il linguaggio è uno stile diverso. L’attacco, dal punto di vista stitico, è un incipit del Leopardi degli inizi, ma la differenza è che viene rappresentata una natura con degli aspetti che devono apparire subito inquietanti e pericolosi. Siamo in un quadro naturale in cui ogni verso c’è almeno una parola che rimanda alla categoria del lessico inquietante. Se eravamo abituati ad avere una natura con un’apertura dolce, rimando a una natura amena e piacevole, tutto questo, sempre riferendosi all’effetto, cambia. Cominciare a descrivere il Golfo di Napoli con questi termini era una scelta alternativa dello scrittore. Il dialogo è con un fiore particolare, che nasce in una situazione pericolosa, ed è solitario. Sono esperienze probabili che lo scrittore abbia fatto, ma questo non significa molto, questo vuol dire che nelle sue passeggiate lui ha voluto privilegiare questo. La Ginestra si accontenta dei deserti: non è qualcosa di invitante. La scelta dello scrittore è di descrivere qualcosa di bello che ha fatto la scelta di privilegiare come terreno la zona del Vesuvio, in alto, dove non c’è più niente di vegetazione. Lo scrittore dice che ha visto anche altre Ginestre: a Roma, la quale viene ricordata per il fatto di essere stata padrona del mondo ai tempi. A Roma si vedevano i resti dell’impero, delle colonne, degli archi, dell’acquedotto, o la Via Appia. Non si aveva una ricostruzione esatto di quello che si vedeva. Questi archi erano troneggianti e magnifici ma appartenevano alla civiltà pagana e quindi di metteva qualcosa attaccato che lo rendesse cristiano. Il tema delle rovine era importante nella letteratura: poter parlare dello scorrere del tempo e della fama. I monumenti sono ormai privi di una loro funzione precisa. Questo è in funzione di un discorso che si svilupperà in seguito. La vede nel suolo dove è rimasta da sola e dove sono probabilmente accadute delle disgrazie: sono campi infecondi, mentre nell’Idillio la natura era rappresentata come feconda. Qui il terreno è coperto dalla lava: non è più una passeggiata piacevole perchè c’è la lava (nota realistica) sulla quale si cammina e i passi fanno suoni particolari. Ci sono due animali non nobili, mentre negli Idilli c’erano animali differenti. Uno è un coniglio che è un animale basso, non amato dal poeta. Il coniglio è un animale che viene cacciato e mangiato e non appartiene a una selvaggina nobile, e una serpe che nella tradizione non ha mai avuto valenza positiva. Abbiamo un eco a certe espressioni tipiche della poesia classica di quando Giove colpiva certe città (“fulminando”).
“La ruina involve” due termini nobili nella letteratura, due espressioni che mandano a una decadenza dovuta a fenomeni drammatici. “Involve” nel senso di circondare, di chiudere ogni possibilità, è anche un verbo amato da Foscolo. Nel verso 35 abbiamo un primo indizio dello scrittore, abbiamo una chiave di lettura. Questo fiore è gentile: aggettivo di quelli che uno che ricorda lo stilnovo, ricorda gli albori. E’ possibile che la ginestra possa commiserare i danni? Abbiamo un dialogo con analogie e differenze: una proposta che dal punto di vista realistico è improponibile. La ginestra, che è un fiore odoroso, gentile e dolce, di quelli che si portano nei cimiteri, manda un profumo, può questo profumo consolare il deserto? No. Il fiore da una capacità di consolare il deserto. I due elementi ritornano qui con una possibilità di una ginestra che sembra, a colui che passeggia, consolare, anche se in realtà non è così. Siamo in un discorso tradizionale: lo scrittore recupera dei topoi della nostra tradizione, idea di colui che cammina, e camminando pensa, e pensando ha delle emozioni e impressioni, e in questo caso l’impressione che ha colui che cammina è che questo fiore sia in grado di consolare il deserto. Il deserto è qualcosa che da un lato la storia e dall’altro la natura possono distruggere tutto e ridurre al silenzio: è il male più grave. Foscolo alla fine dice che l’unica cosa che può sconfiggere il silenzio è a poesia. Foscolo è utilizzabile solo fino a qui perchè poi le loro idee vanno a divergere. Leopardi non accetta l’idea foscoliana del poeta vatae: tramandare ai posteri. L’idea della ginestra è che questo silenzio è possibile supertarlo. Non è possibile sconfiggere la natura ne illudersi di pensare che ci possa una palingenesi per la quale gli uomini non si facciano più la guerra e ci sia un progresso infinito. Di fronte a queste idee noi dobbiamo dire che c’è qualcosa di ancora di positivo che è isolato che vive in territori brulli accanto a un pericolo costante (se ci fosse l’eruzione anche la Ginestra verrebbe distrutta, ma lei resiste). Dal verso 37 inizia la parte polemica: chi crede che ci sarà un progresso venga a vedere qui come la natura non si cura dell’uomo. L’uomo guardando quello che c’è intorno a noi che si può specchiare e vedere che si ha un’idea di umanità stupida che, abbandonato il pensiero giusto e veritiero, si “volge all’indietro”. Arriva a dire che forse il modo di parlare della felicità che arriverà per il mondo moderno, non è nemmeno condivisa a tutti, che vi aderiscono solo in quanto rappresenta l’ideologia dominante. Non esiterà a dire quello che pensa e non gli importa di prendere una posizione contraria.
“Libertà vai sognando” è una citazione dantesca nel Purgatorio, nell’episodio di Catone. Qui lo scrittore cita un episodio noto della Commedia (I canto) dove Dante pone un pagano suicida (Catone): ciò che conta per Leopardi è la coerenza della ricerca della libertà autentica, quindi la scelta di Dante corrisponde a una posizione aggressiva rispetto all’opinione pubblica del tempo. Dice che il suo secolo sta arretrando: non si rifà all’idee dell’Illuminismo e ritorna nella barbarie (verso 75). Dal verso 84 dice che lo sciocco ritiene colpevole chi è rimasto attaccato al vero. La vera filosofia ce l’hanno lasciata l’illuministici e non i Romantici.

In questo testo ci sono molte novità: proposte di un rapporto civile di convivenza tra gli uomini. Lo scrittore è preoccupato che i lettori pensino che lui ha cambiato idea. Lunghezza del testo: da un lato lo scrittore vuole ribadire la situazione del mondo e dall’altro lato c’è l’accusa di spingere l’intellettuale a un’emarginazione totale, impossibilità di progresso che era collegato a un rischio di conflittualità generale e inutilità dell’azione. Nel testo ci sono degli alternarsi di temi: rappresentazione di uomini, natura e storia. I temi in alcuni casi sono immutati, in altri hanno delle trasformazioni.
Leopardi non si poneva i problemi dei filosofi, aveva una cultura vasta ma si sentiva come vocazione l’essere poeta.
Dal verso 87: fa i soliti discorsi. Non pensa che l’uomo abbia una possibilità di avere una splendida vita e ricchezza. Non deve mostrarsi più di quello che è, ma dire le cose come stanno: deve esserci una sincerità, deve essere veritiero, in grado di non dire ciò che il pubblico vuole o il potere pretende, ma deve ergersi una verità acquisita con gli studi.
Ritorna ad un discorso filosofico e usa un linguaggio non poetico ma colloquiale: c’è una grande ripetizione di enjambement. C’era esempi in abbondanza: mito di Atlanta o il famoso terremoto del 700.
Verso 116-117: usa espressioni tipiche della tragedia. Abbiamo un riuso di termini di altri generi per fini strumentali. La natura diventa forte nel soffrire e in una brutta situazione non scatena la tempesta. Chi cade in basso è portato a scatenare il male su altre persone: vicine o popoli (guerre), mentre l’uomo dovrebbe incolpare la natura (vecchia idea leopardiana ma la riusa in modo diverso: l’obiettivo di sposta a quale deve essere il rapporto dell’uomo con altro da se, tra il singolo soggetto e altri soggetti). La proposta è della compartecipazione, o come dice Leopardi “confederati”: uomini alleati tra di loro per combattere contro le avversità. “Vero amor” è un termine allusivo: amore come pietas o caritas? Nessuna di queste connotazioni è valida, e l’amore è un concetto in cui c’è solidarietà tra gli uomini, tra gli animali. Il problema nasce dal fatto che l’uomo ha scoperto il vero e ora ha un desiderio che vuole realizzare, ma tutti i desideri o non si realizzano o si realizzano ma non durano.
Dal verso 140: c’è un discorso che risalta la sua originalità rispetto ai discorsi dell’800 che prevedevano il conflitto e la guerra. Leopardi sostiene che questi atteggiamenti portano conflittualità anche in ambiti minori. Leopardi era memore di quello che accade in Italia tra il 400 e il 500. C’è sulla scia di una cultura ottocentesca la necessità di dire la verità che può arrivare con “l’onestà e il retto” e non con le stupidaggini diffuse nelle gazzette.
Dal verso 158 al 183 l’autore riporta il discorso a se per ricordare altri suoi testi che sono stati concepiti così: eco che viene qui ripreso quando dice che contempla di notte e vede “fiammeggiar le stelle” che rimandano a un altro mondo. “Stelle” è una sfida di Leopardi al lettore attento, è un’allusività. Il lettore non solo deve pensare che lo scrittore sta riprendendo passi antichi di altri scrittori, ma anche che bisogna collegare questo discorso a termini che lui ha usato in altre sue poesie. Le stelle sono piccole luci, piccoli punti. I punti da vicino sono grandi e di fronte a tutto questo l’uomo e il globo sono nulla. “Nebulose” gli paiono nebbia, è il limite del conoscibile dell’uomo. Il proiettarsi verso l’universo è qualcosa che l’uomo non sa concepire.
Al verso 183 c’è una domanda retorica “che sembri allora o prole dell’uomo?”. La capacità dell’uomo è di vedere il paesaggio, guardare il passato e l’unico risultato è la consapevolezza di potere elaborare intellettualmente. Lo scrittore esprime quello in cui crede ma esprime qualcos’altro. Nella parte seguente il discorso si fa ambiguo: “che te signora e fine credi tu è data al Tutto”, c’è una polemica a Genesi della Bibbia. Il discorso viene capovolto, non si critica direttamente la religione cristiana, vengono chiamati gli Dei e non il Dio cristiano: “scender gli autori”. Questa età è convinta di avanzare “una conoscenza di civil costume”: ogni periodo è convinto di essere migliore del precedente, chiodo fisso di Leopardi. Dal suo punto di vista letterario ha pretese profetiche con stampo etico. Leopardi pone un problema: un intellettuale ostile al mondo, che effetto produce? L’intellettuale all’opposizione è qualcosa di diverso perchè si accetta in contraddittorio, un confronto, mentre Leopardi è a tale distanza da non riuscire a portare qualcuno dalla sua parte. Nelle “Operette morali” ci sono dei dialoghi dove i due non si capiscono mai (a parte quello tra Plotino e Porfirio), e chi ha ragione prende in giro l’altro.
Verso 201: “il riso o la pietà”, non c’è un’opposizione, ma convivenza dell’intellettuale che marca negativamente la società, ma può alternare ad essi un discorso dei “confederati” mettendo da parte questa ostilità. Dal 201 al 230 c’è un virtuosismo letterario. Inizia con una similitudine: un frutto marcio cade su un formicaio e lo distrugge come il Vesuvio può distruggere la città. C’è una descrizione enfatica della distribuzione. C’è una capacità di traversare di termini dell’idillio e mescolarli con altri che trasformano la descrizione in qualcosa di apocalittico. Tutto quello che l’uomo ha costruito nel tempo viene distrutto in un attimo. Adesso si sono costruite dopo secoli altre città e quelle precedenti sono “prostrare”: tendenza dell’uomo a dimenticare e a poter costruire perchè pensa che quello che è accaduto una volta non possa ripetersi più, invece non è così. Alla natura non importa di nulla: uomo e formica sono sullo stesso piano. Ci sono più formiche che uomini. Ricorda l’esplosione del Vesuvio del 79 d.C. Nonostante questo il riferimento è al lavoro dell’uomo: il contadino ha paura che possano ripetersi queste cose e possano distruggere il suo lavoro, la sua casa e la sua famiglia. Quando comincia la fase dell’eruzione c’è bisogno di vedere: tutto questo porta a una visione concreta e si spinge alla luce di notte; abbiamo un’immagine capovolta del bel Golfo di Napoli, si guarda a questo quando potrebbe finire.
Dal verso 260 abbiamo l’immagine della lava che si avvicina lenta. Rimanda alle esperienze che Leopardi o aveva letto o aveva sentito raccontare: loro salvano qualcosa ma non fuggono completamente e vedono dolorosamente la loro casa e i campi che vengono distrutti dalla lava. Dopo tanta dimenticanza ci furono delle iniziative culturali di scavare Pompei: scavi per riportare alla luce. Si vede quello che resta e si immagina questa prospettiva falsata: il Vesuvio fuma, quindi la minaccia è costante. Leopardi ama i notturni che possono avere suggestione lirica: questo scenario notturno è forzato, sembra strano che una persona contempli la lava che scende passeggiando tra le rovine di Pompei. Questo ha un motivo: solo col buio la lava rosseggia, quindi abbiamo un’invenzione artificiosa di una visione che coinvolge il soggetto che vede le rovine e nel contempo vede il potenziale pericolo, e questo è anche leggermente “deformato dalla notte” con le ombre e crea un’atmosfera quasi paurosa (“dove partoriscono i pipistrelli”).
Verso 284: “face” può essere la luce della verità, e viene abbinato all’aggettivo “sinistra”, abbiamo il ricordo di una paura, di un’aspettativa inquietante. Abbiamo anche una ricerca di scenari e quadri diversi. La natura è l’unica cosa sicura e i suoi tempi non si possono capire. Mentre ci affacciamo sul presente riteniamo che la nostra civiltà possa andare avanti per l’eternità, importante perchè questa riflessione positiva viene messa proprio dopo una scena di paura .
Siamo al finale: ritorna la Ginestra. L’allegoria del fiore è che accadrà l’eruzione il fiore verrà coinvolto, soccomberà. E’ “lenta”, ovvero flessibile, che può essere anche l’essenza dell’uomo. Non è un atteggiamento di debolezza, l’uomo deve avere consapevolezza del vero (questo è qualcosa di incontestabile). Nella vita dell’esistenza l’atteggiamento migliore è avere la consapevolezza di essere flessibile: adeguarsi alla situazione. Se la flessibilità non può evitare la morte della Ginestra, si ha comunque qualcuno che rimane però (nel pensiero) non assumerà l’atteggiamento codardo di chi ha paura di pregare e nemmeno forsennato di chi guarda le stelle negando l’evento delle cose. Dice che la Ginestra è saggia (aggettivo in realtà attribuito all’uomo) e meno debole dell’uomo, non avrà atteggiamenti per cui le nostre deboli origini; non crederai che siamo immortali dal fato o dal te.

Chiusura: prevedibile.

C’è il fatto che prima con termini pacati, senza sicurezza, fa delle affermazioni per stabilire l’unica posizione corretta che deve prendere l’uomo.

Il modello deve essere la Ginestra: non disperiamoci e non preghiamo, non pensiamo che il destino sia legato al progresso.
L’800 segue non allargarsi del pubblico: è un progresso, ma dal punto di vista letterario non danno la garanzia della felicità. L’oratoria per convincere deve fare delle promesse, deve suscitare una reazione con componente emotiva. Tutto questo conferma l’atteggiamento dello scrittore. Il suo discorso rimane severo fino alla fine: sostiene di fronte al suo immutato atteggiamento da un lato irride chi crede nel progresso e propone un atteggiamento serie e demistificatore, ma dall’altro dice che è sbagliato il conflitto. Il ruolo dell’intellettuale è quello della Ginestra: può essere poesie e profeta che non vuole essere il portavoce ma dice la verità. Può essere che il messaggio della Ginestra venga distrutto dal Vulcano ma lui non può fare altro.

Link utili per l’analisi della Ginestra di Giacomo Leopardi:

Analisi della Ginestra di Giacomo Leopardi (Oilproject) >>>

Parafrasi della Ginestra di Giacomo Leopardi >>>


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